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davide
federica
lavinia
maria grazia
Ciao Salvatore,
mi ha fatto molto piacere ricevere l'invito a visitare il tuo sito internet; gli darò un'occhiata e scriverò senz'altro qualche commento.
Dopo quell'incontro fortuito in un bus in centro, avvenuto circa 2 anni fa in zona Piramide, non abbiamo più avuto modo di rivederci.
Ogni tanto mi capita di ripensare a tutto il lavoro che abbiamo fatto con te in Accademia: la Bisbetica domata, le lunghe ore di prove per la sua messinscena (e ti assicuro che durante il periodo accademico, con i pochi soldi con cui campavamo, le poche ore di sonno e la sempre presente "gran fame atavica" che ci tormentava sopratutto passata ora di cena, ci sentivamo (almeno io!) come "piccoli Zanni allo sbaraglio" catapultati al di fuori di qualche commedia dell'arte!); e poi le tue dettagliate descrizioni culinarie, aggiunte alla tua grande capacità retorica, non erano certo di aiuto... Ti ricordi infatti che avevamo incentrato il tutto su una cena ideale che non veniva mai consumata? Quei 3/4 mesi sono stati fra i più incisivi dell'intero percorso accademico. Ripenso a tutti gli insegnamenti e gli studi affrontati in seguito durante lo stage di lettura poetica e a quanto mi sarebbe piaciuto continuare a lavorare sui pezzi di Pasolini, che non ho scoperto grazie a te ma che d'altro canto posso dire di "aver davvero scoperto grazie a te"... in questo mondo "fuori" ho visto che non si tiene affatto conto, o non abbastanza, di Pasolini né di altri grandi nostri artisti, scrittori, poeti, drammaturghi del passato recente e questo, sopratutto riguardo a Pasolini stesso, mi fa vergognare se ragiono come uomo che nel suo piccolo cerca di fare cultura; e mi riempie di un pianto sordo, se ragiono invece come attore che amerebbe recitare quelle meraviglie.
Ma chissà, magari queste mancanze saranno proprio quelle che alimenteranno le "artistiche sfide quotidiane"...
Ti dovrei ringraziare per molte cose che mi sono rimaste impresse dopo il tuo passaggio: in primis, il tuo farci avvicinare allo stupendo meccanismo di erotismo, passione e tempesta che si cela dietro il TANGO! Dopo la Bisbetica domata, terminata l'Accademia, assieme alla mia ragazza abbiamo frequentato per un anno intero un corso di tango e tutt'ora, andiamo spesso a ballare nelle milonghe... è un mondo immenso, misterioso, profondo e meraviglioso.
E poi ti ringrazio per avermi fatto riscoprire Le passanti, stupenda canzone che nel grosso calderone di musica che in tutta la vita ho suonato, avevo appunto "lasciato passare"... Ti ringrazio per avermi fatto capire l'importanza di leggere "Sillabari" di Parise e del significato di "bellezza"... Ti ringrazio per Alfieri, per la potenza del suo verso poetico, per la professionalità con cui tutte le sere ci auguravi "merda" prima di andare in scena, per avermi fatto scoprire quanto è coinvolgente leggere "Le ceneri di Gramsci" davanti alla sua tomba nel cimitero degli inglesi a Testaccio... per le decine di aneddoti che ci hai suggerito e che ogni tanto mi risuanano in testa (e che, ad essere sincero, funzionano proprio bene)... e ti ringrazio per la grande professionalità chi mi hai passato e per essere stato "uomo" ancora prima che insegnante.
(Davide Bardi, Linkacademy, anno accademico 2008/2009)
Caro Davide,
non ricevevo da tempo una lettera così bella, e allora sono io a ringraziare te. Nel cupo silenzio che segue un lavoro teatrale dove tutto finisce e tutto sembra perduto senti un vuoto che nessuno potrà risarcire, e allora una reazione così, a cose fatte (fatte due o tre anni fa...), arriva come un dono inaspettato.
s.
Ora, ripercorrendo con la mente tutto il tragitto teatrale dall’inizio del laboratorio, riguardando il prezioso taccuino ricco delle immortali perle di Salvatore (adesso è giunto il momento di rendergliele), la sensazione è simile a quella provata al ginnasio all’ inizio del corso.
Uno spaesamento, oserei dire, misto a quella curiosità impertinente degli adolescenti. Sempre all’erta per catturare e osservare quello che facevano i compagni più grandi, che sembravano giganti. Poi, quel continuo arrovellarsi per capire il senso di tutto ciò che si faceva là dentro. La cosa meravigliosa è che questo non comprendere dava tutt’altro che fastidio; non capivo, eppure mi piaceva lo stesso. Facevo, con fiducia, poi avrei scoperto. Come infatti accadde, e nel giro di poco tempo.
In tutta quella apparente assurdità di richieste e di esercizi si riusciva alla fine a comprendere tutto. Il linguaggio di Salvatore non era mai troppo “grande”, adulto, non portava una barba austera, difatti pochi sono stati quelli che chiedevano “Me lo può rispiegare?”.
Alla fine non solo trovavo una spiegazione, ma anche un riscontro pratico, visibile, di quello che facevamo, nella realtà.
Appunto, la realtà, il mondo. “There is a world elsewhere”, lo diceva Coriolano e lo dice anche Salvatore. Difatti questo laboratorio mi ha cambiato il modo di vedere il mondo, di relazionarmi con esso e soprattutto con le persone. Non dico teatro-terapia, senza dubbio questo aspetto più psicologico è presente, ma non è quello di cui voglio parlare. Il teatro non è solo un modo per risolvere i propri problemi, perchè è principalmente comunicazione, così ci diceva Salvatore e l’ho riscontrato anche nella mia esperienza. Non vi sono mai stati secondi fini o terapie; come diceva Fred Astaire “Non ballo per sfogarmi, per frustrazione o per esprimere me stesso, ballo e basta”. Quel nuovo occhio sul mondo là fuori è un occhio creativo, il teatro cambia la percezione dell’esterno (e anche dell’interno sicuramente) da un punto di vista soprattutto creativo.
“Ogni storia è una storia d’amore”, ecco la prima perla! Impari ad osservare le persone come tanti personaggi, ne scruti i tic, le fattezze, i modi, l’energia che emanano, il loro campo di attrazione e di attenzione, e li segui fino a posti improbabili (come il povero Antonio!). E ti accorgi che tutto è teatro. Come sembra retorico quello che ho appena scritto!
Dai vecchi fogli del quadernetto salta fuori che nei primi due anni quello che più mi colpì degli insegnamenti fu l’immaginazione. Mi ricordo che lavoravamo tantissimo su quello, attraverso esercizi via via sempre più complessi con cui, proprio tramite l’immaginazione, ci riuscivano più semplici cose molto pratiche, tecniche se si può dire, come la respirazione.
Poi, l’energia. Quando Salvatore ce la introdusse io ero entusiasta, mi piaceva tantissimo.
“L’attore deve essere come una pentola che borbotta, deve essere sempre carico di energia, pronto, mai adagiarsi.” (perla numero 2).
E come ero contenta quando scoprii questa cosa dell’energia! Quando andavo a teatro me ne rendevo conto, se vedevo un attore bravo ne percepivo l’energia, e ciò mi riempiva di soddisfazione.
Creavamo energia con la corsa e poi dovevamo mantenerla anche da fermi. Proprio quello che hanno poi fatto le mie compagne Marzia e Sara nell’ “Elettra” di Giraudoux. Una inseguiva l’altra, correvano correvano, una musica incalzante correva con loro e poi, ferme, iniziavano il dialogo, e veniva benissimo!
Il terzo anno gli esercizi sono diventati più concreti, pratici. Ci venivano in aiuto quando facevamo i nostri monologhi.
Preparando il saggio su “Pene d’amor perdute” abbiamo imparato che tutto deve avere un motivo, un oggetto. Bisognava creare l’urgenza di parlare e di fare azioni. Facemmo una volta un esercizio in cui dovevamo entrare in corridoio da una porta chiusa, avere un motivo, e farlo capire agli altri. E in quel saggio il compito principale era proprio questo, trovare sempre un motivo per fare qualcosa, andando in improvvisazione per quaranta minuti, operare una continua variatio, il famoso passaggio in B. All’inizio, tutte sedute attorno a un tavolo, dovevamo saper entrare da una porta chiusa.
“La poesia ci aggredisce, ci spiazza, e noi per difenderci da lei non possiamo far altro che farla nostra, aprirci a lei e lasciare che essa si impadronisca di noi. Per difenderci dalla poesia dobbiamo diventare poeti.” (Super perla!)
Ultimo anno. Tanta poesia, che bello. Abbiamo fatto lezioni sulla poesia, portandone molte a memoria, imparando a recitarle rispettandone il cosidetto telaio (“La poesia ha il suo telaio, su cui il poeta tesse sopra le parole nel modo più bello possibile”).
Questo è stato l’anno più denso, fitto, quello con più pagine di quadernetto. Tante cose nuove, cose imparate meglio, molte di esse strettamente pratiche, quasi regole. Abbiamo imparato che la recitazione consta di tre cose: le parole che diciamo, le cose che diciamo, noi che le diciamo; che ci sono domande da porsi sempre per recitare (chi parla, a chi parlo, dove parlo, perchè parlo).
E poi il bellissimo excursus estemporaneo sul teatro e la sua epica. “Il teatro è sempre epico, non solo quello antico, ma anche quello elisabettiano e moderno, nel senso che c’è sempre un rapsodo, un attore narrante che ad un certo punto avanza in proscenio e sfonda la parete, il teatro in quel momento non è più una realtà altra sul palco, ma un tutt’uno col mondo. Una sedia sul palco non solo ci sta materialmente, ma dal momento che è in scena è anche una parola, la sedia è diventata una parola”.
A queste lezioni si aggiungevano anche quelle di solo training, che ti sorprendono sempre, perchè il loro obbiettivo è tutt’altro che fisico come l’allenamento.
Mi ricordo gli esercizi di de-contrazione, il cui fine era proprio quello di abbandonare il freddo pensiero razionale e quello schematismo così contingente alla realtà, per fare le cose senza più pensare a come vadano fatte secondo il meccanismo che noi abbiamo in testa, ma lasciar prevalere quel flusso emotivo dell’animo umano che per la COMUNICAZIONE ( quello che gli attori devono saper fare) è la via più diretta, più appropriata, più efficiente.
“L’attore deve emozionarsi” questo Sasà lo dice almeno una volta all’anno “se non lo facesse sarebbe un morto vivente, non un attore”.
Posso infine dire che, tra le varie novità ad ogni nuovo laboratorio, il leitmotiv di tutti questi anni è stato l’ascolto degli altri. La comunicabilità, gli esercizi sulla fiducia. Il famoso esercizio del ripeti parola voleva spiegare come ciò che io noto nell’altro sono le parole che lui dice.
Questo ha raggiunto il suo culmine nel mio ultimo saggio “Serata a Colono”, in cui dovevamo stare tutti continuamente su due livelli, uno intimo e uno esterno a contatto con gli altri attori.
Era come se lo spettacolo fosse tenuto da una rete formata da corde che partivano dal nostro ventre e ci legavano l’uno all’altro in un equilibrio preciso.
Non dovevamo pensare alla singola azione di noi stessi, bensì sentire l’atmosfera, con il terzo occhio percepire e vedere gli altri attorno, solo così potevamo creare un vero teatro.
Perché, come ha detto Salvatore alla fine, “Teatro, è parlare a nuora, perchè suocera intenda ”. (Lavinia Carpentieri, Liceo Albertelli, anni scolastici 2007/2011)
Il pensiero che ciò che abbiamo creato in questi giorni sia stato un flusso di castelli di carta non annulla la poesia di ciò che è accaduto. Nelle pareti della mia memoria, della mia anima, resteranno per molto tempo frammenti di parole, di esperienze. Forse questo significa costruire biografie. Forse vivere soltanto non è sufficiente.
Per risvegliare in noi un processo creativo paradossalmente non è necessario uno sforzo intellettuale, ma l’attivazione del nostro corpo. La conoscenza della macchina è un processo di ricerca simile al percorso che compiono le piante dei piedi di un funambolo: uno stare delicato e deciso, una consapevolezza di esserci. Questa settimana appena trascorsa è stato un saggio sublimato di ciò che il ginnasio forse rappresentò per i greci: un allenamento del corpo e dell’anima, o meglio del corpo nell’anima. L’aula era la stazione e i nostri percorsi, binari infiniti. Il piacere dell’astrazione non aveva il tempo di concedersi se non accompagnato ora dalla corsa, ora dal cammino. La ricerca di una “dimora” per il flusso del corpo e del pensiero è iniziata immediatamente. Camminare esercita riscalda ricorda. Correre è come lavarsi il viso al mattino. Saturare è dormire senza sogni. Come mi sentivo allora? Come mi sento adesso? Ora che le mie dita e i miei occhi corrono sulla tastiera, ora che questa azione si prolunga posso riconoscere che il mio pensiero può imparare ad essere qui e lì.
Riscaldo il corpo, i muscoli, le articolazioni, i nervi, il sangue fluisce, il cuore pulsa e solo ora, tutto accade e ne sono cosciente, ora posso ascoltare fuori dove gli occhi sono iper-potenti, fuori dove gli occhi odono tanto… colori e rumori fusi, l’oblò di una lavatrice si apre, le tende di lino di una grande finestra si muovono, il vento trapassa una sciarpa, l’acqua scorre dalla bocca di una fontana. Pausa. Il primo castello vola.
Mi piace pensare che un tempo il senso del sacro fosse più epidermico che concettuale. Immagino la parola stringere un patto di sangue con l’azione. Sorelle nel movimento gioioso dell’arte. In questi giorni questo patto miracolosamente antico è riaccaduto: la pazienza dell’azione del corpo ha richiamato la folgorazione della parola neonata. Le corde vocali si sono abbarbicate e gettate in un pozzo, lanciate nel luogo misterioso dove il movimento non cessa mai, al cui cospetto il pensiero è pura meccanica: la realtà profonda delle azioni interiori è stata evocata. C’era da sempre, c’è sempre, ma sempre altrove. E così un corpo acceso e una parola sempre neonata iniziano a muoversi nel ricordo di un’altrove-vita. Si può scegliere vado non vado e non ci sarà mai errore.
L’errore è la finzione, il fare finta di vedere, la ripetizione esasperata di un’azione risaputa. L’errore è far finta di sapere ogni cosa e non cercare mai niente. Il teatro è una fauna da preservare, un reparto pediatrico dove le parole sono per poche ore germogli di pianti, di vagiti. Il teatro attraversa il tempo, ma ha un altro tempo, tutto concentrato tutto passato ora che lo dico, tutto presente ora che lo agisco.
Le storie dei personaggi non possono avere i tempi delle storie umane. Le storie dei personaggi cedono all’incanto del poeta, ne conserveranno per sempre una linfa. Come è semplice banalizzare, rifiutare. Se la cosa che può spaventare un uomo è il non sapere che cosa accadrà, non possiamo usare lo stesso principio per un personaggio. Il personaggio ha un bio-ritmo segnato, accordato dal poeta. Conosciamo la fine come conosciamo gli spazi bianchi di un foglio. Ma abbiamo bisogno di capire, di affastellarci di domande. L’analisi può seguire processi di scomposizione molecolare della parola o processi ingenui, poetici. E questo è il campo dell’associazione, della condivisione di tutte le immagini poetiche che ci hanno segnato: il processo analogico si coltiva giorno per giorno, affiora e illumina. Nasce e si nasconde.
Per questo non dimenticherò mai le spalle del pescatore che salvò la signora Isotta Barbarino .
(Maria Grazia Calareso, Scuola di Teatro “Colli”, anno accademico 2008/2009)
La stanchezza della giornata, ma in generale della settimana, unita alla gioia che mi accompagna in ogni lezione, dal primo giorno, stanno rendendo il primo incontro con Cardone, davvero strano. All’inizio tutto sembrava molto “lento”, discorsivo, mentale, quasi pesante per il mio cervello affaticato, adesso però che stiamo facendo gli esercizi fisici, percepisco molto chiaramente, che la stanchezza è solo un elemento d’aiuto, quasi come se l’insegnante ci avesse appositamente storditi con le parole, per rendere l’esperienza attuale ancora più forte, come infatti è per me ora.
Mi fa uno stranissimo effetto, sentire nuovamente l’espressione “vista periferica”, visto che l’ultima volta che avevo sperimentato questa modalità di osservazione, era stata alle lezioni di aikido. Devo dire che la varietà dei movimenti e delle tipologie di sguardi, mi portano ad oltrepassare una soglia, oltre la quale non sto più applicando la concentrazione, ma la “percezione”. Inoltre, con la differenza tra densità e rarefazione, sento davvero l’energia mia e del gruppo, come un reticolo di filamenti, a volte molto spessi e a volte davvero sottili. Correndo, sento, alla mia massima velocità, che non sto più poggiandomi su nessun punto di equilibrio, ma che sto quasi “fluttuando”. Sento molta serenità e fiducia, oltre che verso la “guida”, anche verso l’ambiente circostante e gli altri compagni.
La lezione di oggi è molto intensa. Trovo molto interessante il lavoro sulla permanenza, che abbiamo fatto fin dalla prima lezione, collegato all’azione del corpo, con la sua intelligenza e la sua volontà. Il professore ci porta all’immobilità, durante la corsa e la camminata, per poi chiederci di ricordare con immagini, quello che fino a qualche istante o minuto fa stavamo facendo e di continuare la permanenza nel ricordo, anche se il corpo avesse deciso di ricominciare a muoversi.
Nuovo tipo di percorso. Partiamo dall’ascolto del nostro corpo e dei suoi bisogni, muovendolo o immobilizzandolo, secondo le sue necessità, ma anche secondo un gioco di equilibrio e squilibrio tra stasi e moto, densità e rarefazione, a cui il professore ci chiede di prestare attenzione. Così, lentamente torniamo al nostro solito schema di variazioni, possibilità, saturazioni e permanenze. Lavoriamo a gruppi di tre o quattro, entrando uno per volta, cercando il nostro percorso, ma anche equilibrando l’energia creata dai percorsi di tutti gli individui del gruppo. Adesso focalizziamo la nostra attenzione su un dettaglio, nostro, dei compagni, della dinamica in generale. Qualsiasi cosa risulti evidente ai nostri occhi, dobbiamo cercare di manifestarla, farla rivivere.
Siamo disposti su due file, lungo le pareti ed il professore chiama ad iniziare il processo, sulle modalità note, cinque di noi. Nel vedere il loro lavoro sul motore, sulla permanenza, sugli impulsi e poi anche sull’evidenza, io sento una forte impazienza. Voglio intervenire nel loro processo e farne parte, soprattutto alla fine, quando in coppia, uno di fronte all’altro, lavorano sull’evidenza che si manifestava sul compagno, rispondendo agli impulsi. Hanno terminato e danno un rapido feed-back, Cardone chiama me e Alessandra a fare lo stesso esercizio, ma poi preferisce, per chiarire meglio il procedimento, intervenire egli stesso, facendo l’esercizio con me. Trovo questo semplice esercizio, di una sconvolgente efficacia, dal momento che quando la risposta all’impulso di evidenza è reale, libera, concentrata e reattiva, ciò che ne risulta, sia nella qualità della voce, sia nello sguardo, è la naturale presenza che hanno i bambini, quando rispondono semplicemente ad un impulso come se questa fosse l’unica possibilità, la sola cosa esistente.
Si alzano in sei e cominciano. Il professore sta aspettando qualcosa, prima di invitarli anche ad un’azione verbale… credo voglia essere certo che l’energia sia abbastanza mossa e riequilibrata, tra densità e rarefazione. Sta spiegando, che per produrre un’azione poetica devono poter attingere a materiali di giornata che stanno creando nel processo, oppure che risalgono ad una memoria precedente, anche se specificatamente fresca, magari di qualche ora fa. Adesso iniziano a dare spazio alla voce, ma mi sto accorgendo, dall’esterno, che l’equilibrio che sono riusciti a trovare nel movimento, appena subentrata la parola, tende a perdersi, tra momenti di estrema densità e altri di assoluta rarefazione.
Mentre osservo il lavoro so già che sto per entrare e la persona che mi colpisce maggiormente, è Rossella… mi sembra, statica, rarefatta… voglio riequilibrare il suo flusso. Fissandola, entro.
Corro, cammino, osservo gli altri, compongo, ma ho messo il reggiseno con le coppe, sono a disagio, cerco di resistere alla tentazione di aggiustarmi, ma il mio lavoro è disturbato dal mio sentirmi goffa e immediatamente, questo crea uno straniamento tra me, gli altri che stanno agendo ed il “pubblico”. Il professore ci sta chiedendo un feed-back, ma non so che dire, perché lui sta parlando per la prima volta di “oralità” e non so cosa vuole realmente. Parlano in tre o quattro ma a detta del professore, nessuno sta esprimendo oralità. Adesso tocca a me… “Io sono stata attratta dal flusso di Rossella ed ho voluto completarlo…” “Non è oralità…” Mi chiede di raccontare qualcosa che solo io posso aver vissuto, che gli altri non hanno visto… Mi chiede una rivelazione? Bene… “Ho messo il reggiseno sbagliato e sono stata a disagio per tutto il lavoro, soprattutto nella corsa…” “Questa è oralità!” Ridono tutti, mi vergogno anche più di prima, ma adesso, almeno ho percepito la sensazione di autenticità, necessità e liberazione, che si provano anche in una minuscola e modesta frase.
C’è qualcuno che assiste. Francamente non ho il coraggio di buttarmi subito. Non ci sono solo i compagni. C’è qualcuno, e suo malgrado crea inibizione. Aspetto ancora un po’. Il professore dice di subentrare chiunque senta l’impulso… Vado. Corro, attivo la macchina, il processo è avviato, inizio con il processo interiore e adesso sono direttamente in quello verbale. Devono restare solo cinque persone. Io resto… Adesso siamo in cinque e proponiamo un assolo agli altri. Che faccio, propongo il mio? Cardone si è già accorto prima che potessi muovermi: “Federica ha dato un chiaro segno per iniziare l’assolo!” Seguo quelli degli altri, cerco di equilibrare. Dobbiamo restare in tre. Continuiamo i processi, adesso vuole che ci guardiamo tutti e tre, siamo finiti insieme da un solo lato della stanza… Perché? Gioco delle evidenze. Dopo un po’ stiamo diventando ripetitivi e declamatori, il professore richiama all’altra parte della sala, più vicina al pubblico. Formiamo un piccolo cerchio e continuiamo a giocare all’evidenze. “Tu hai la treccia…” “Treccia.” “Sei sudata…” “Sudata.” Provano a distrarci, ma io non mi sento minimamente deconcentrata. Nessuno dei tentativi è abbastanza forte.
Stanno lavorando in piedi per giungere, credo alla fine del processo, ai testi che hanno scelto. Il professore sta dando loro un chiarimento fondamentale, mentre continuano nel flusso: “Non fate mai direttamente quello che vi viene chiesto. Passare prima da qualcos’altro, perché l’azione giunga in modo naturale.”
Trovo questa osservazione talmente forte e rilevante, che mi sento quasi stordita avendola appena sentita, come se mi rimbombasse nelle orecchie… Si vede che per me può essere una chiave importante. Si muovono più liberi del solito, con più possibilità, tra cui anche quella di interrompere il flusso in alcuni momenti. Uno alla volta, dopo averla creata nel processo, eseguono la composizione fatta da segmenti di movimento, interruzioni e parole, quindi flusso fisico, flusso interiore e flusso verbale. Il professore commenta: “L’evidenza delle cose sta nel fatto che le si nomina. Le cose nominate ci sono. A teatro, io porto il deserto sul palco, rendendolo evidente, senza bisogno di recarvisi.”
“Ho comprato gli assorbenti…” la prima cosa che sto dicendo nel giusto momento, seguendo un impulso autentico. Poco fa volevo esprimere l’evidenza di un bastone e non l’ho fatto, poi ho verbalizzato il verde di un tappetino, ma era un falso motore, così finalmente adesso, sentendo l’enunciato del professore che dice di riprendere i materiali di giornata, sia del processo in atto adesso, sia di questa mattina, riesco a liberare una frase nell’attimo in cui va detta: adesso. Il processo iniziale ora deve lasciare il posto ad un processo di composizione. Un flash dal mio testo: albero… Voglio esprimere la sua evidenza… Non apro bocca. Lo ricordo di nuovo… Voglio nominarlo… Silenzio. Uno alla volta tentiamo un assolo e si cerca anche di facilitare il solista che al momento sta lavorando. Corro… stop: “Ho comprato gli assorbenti…” Cammino indietro… stop, con un gesto della mano: “Un caffè macchiato…” Cammino velocemente… Il professore si è accorto che qualcosa blocca il mio flusso, non sto lasciando che accada. Sono ferma davanti alla finestra, sono un po’ nel pallone… “Federica, niente panico! Semplicemente guarda fuori e dimmi che vedi!” “…Albero…” È un miracolo?
“A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest'albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest'albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.
(Federica Carruba Toscano, Linkacademy, anno accademico 2009/2010)
fogli di sala
comunque non è amore (sennò non mangerebbe)
filumena, la straniera
forse che la paura ha spento l’inventiva?
il cimento e l’invenzione
il mondo, le parole
l’accademia sbagliata
l’albero di jo
la bisbetica domata
la repubblica dei poeti
schizzi d’attore
studio orale esposizione
tutti al macello
un po’ di poesia, per favore
un ritratto del duemila
uomini che amano le donne
Le cronache raccontano di come la realizzazione di Tutti al macello di Boris Vian negli anni cinquanta abbia messo in imbarazzo più di un regista. E in verità, nel suo apparente disordine, il testo, al di là delle difficoltà tecniche che presenta sul piano del gioco scenico, contiene non pochi inganni strutturali: fondamentalmente, la frenesia delle entrate e delle uscite, che fa pensare ad un Feydeau ancor più accelerato, da un lato; dall’altro, gli eccessi comportamentali dei personaggi, che suggeriscono soluzioni grottesche; inoltre, l’uso spiazzato dei luoghi comuni del parlato, che sembra orientare, infine, il testo verso esiti metateatrali, di parodia delle forme dialogiche tradizionali.
Ora, il gioco delle entrate e delle uscite, nel vaudeville di tradizione, rappresenta la propulsione stessa della trama, ed è per questo, in qualche modo, un gioco astratto; che un personaggio sia presente mentre l’altro non c’è, è il meccanismo elementare, l’escamotage arbitrario grazie al quale il racconto va avanti. In Tutti al macello, invece, succede esattamente il contrario: che si tratti di intrusioni di estranei, che entrano una volta e poi mai più, o di tappe dell’itinerario di personaggi “ritornanti”, le entrate rappresentano interruzioni, intralci al lineare svolgimento dei fatti, e le uscite l’illusoria convinzione che questo svolgimento possa riprendere - e questa è la loro funzione “negativa”; in positivo, le une e le altre si impongono “fisicamente” come improvvise aggiunte o sottrazioni “materiali” a quanto avviene in scena, contribuendo a far crescere non l’intreccio, ma la chimica, la temperatura, l’atmosfera: qualcosa che è più vicino a Checov che a Feydeau.
Quanto ai comportamenti che Vian immagina per gli abitatori di questa commedia, essi procedono all’apparenza e decisamente verso una comicità diretta, immediata e quasi invitano ad adottare soluzioni eccessive e sopra le righe. Ebbene, uno spettacolo che nasce da Tutti al macello dovrebbe far ridere al di là delle intenzioni degli attori. E non solo perché è un errore raddoppiare l’effetto, aggiungendo un assetto comico di base, un voler-far-ridere, ad un testo già ricco di comicità. E nemmeno perché, come è proprio del teatro dell’assurdo, la naturalità della recitazione mette a nudo le incongruenze dei personaggi. Qui essi non sono né funzioni astratte, né sagome incongrue, ma personaggi in senso pieno.
Tutti al macello, infatti, offre qualcosa di diverso e di più dell’assurdo. Lavorando sul personaggio, ricercandone verità e vita vera, paradossalmente coerente non ostante tutto, non ostante gli eccessi, anzi proprio in forza di quelli, Tutti al macello rivela una magia a prima vista un po’ nascosta. Il comportamento verbalmente disturbato, ad esempio, potrebbe dipendere fisiologicamente proprio dal gioco violento delle violentissime intrusioni; l’indifferenza ai rumori di morte provenienti dall’esterno, più che un dato gratuito, un atteggiamento assurdo, potrebbe esere più semplicemente il risultato della convivenza, la quotidiana dimestichezza con la morte. Il gioco imprevedibile del parlare e dell’agire, più che denudare metaforicamente, e quindi in astratto, l’assurdità dei meccanismi del quotidiano, potrebbe essere attitudine personale in senso regressivo, gioco gratuito, gioco in senso proprio.
Esplorate queste ipotesi, i personaggi a poco a poco pretenderanno la vicinanza degli spettatori per meglio sottoporsi all’osservazione, nel loro svuotarsi e denudarsi come bambini. E così tutto congiura perché l’azione esca dalla scatola teatrale, dove il gioco delle porte è gioco astratto, e si svolga in un interno reale, all’interno stesso del fabbricato che contiene spettacolo e spettatori, per meglio mostrarsi e denudarsi. E per vie insospettate nel ridere furioso affiorerà a poco a poco quella malinconia, quel retrogusto amaro, quella tristezza di vivere, quello scandalo che in Vian coesiste sempre, indissolubilmente, con la gioia di vivere.
(“Tutti al macello” di Boris Vian,
spettacolo diretto da Cardone nel 1982)
The Taming of the Shrew è uno dei pochi titoli shakespeariani nel quale viene sintetizzata con chiarezza la trama. Il nostro La bisbetica domata non rende giustizia all’originale, fa pensare ad un match più che ad una trasformazione, ad una sconfitta più che a una riuscita. Si perde in esso il senso di un processo positivo di emancipazione, quasi di dirozzamento o di incivilimento, qualcosa come L’addomesticamento di un’indemoniata.
Lo scopo di Petruccio è invertire la tendenza in Caterina a contrastare ogni approccio con una verbalità isterica. Con essa Caterina si difende, ma di essa è prigioniera, in uno stallo senza vie di uscita. Le sue parole vanno neutralizzate e Petruccio ne rovescia sistematicamente il senso. Ma soprattutto va sottratta al suo mondo perché in esso Caterina è infelice. È un mondo mercantile, fatto di interessi materiali. Anche le figlie da marito sono merce di scambio. È un mondo ipocrita, in cui si pratica l’inganno sistematico, come mostra il più alto numero di travestimenti mai censiti in una commedia. È un mondo asfittico e meschino, di cui Bianca è la stucchevole campionessa e l’inquieta Caterina è vittima, al punto da reprimere in sé ogni gioia di vivere. A quel mondo Petruccio è organico, questo è certo, solo che in esso egli immette il principio di piacere, o meglio, ad esso restituisce il suo valore: anche la felicità personale deve avere il suo posto in una vita governata dall’obbedienza alle leggi.
Ma la strategia di Petruccio è del tutto imprevedibile, ed tutt’una con la strategia teatrale di Shakespeare. Levata via da una commedia degli inganni, Caterina viene calata dal suo uomo un una farsa delirante. Allo scopo di ricostruire un ordine, egli adotta la strategia della confusione, del sovvertimento folle di ogni regola. Petruccio fa ridere Caterina, la fa godere e divertire.
E si arriva al momento in cui lei fa atto di sottomissione davanti all’intera comunità. Un gesto perturbante nella sua semplicità, estremo e senza scampo. Al punto che da secoli ci si scervella per farsene una ragione. Non è vero, fa finta, è tutta tattica, e le attrici holliwoodiane, a monologo finito, guardano in macchina e fanno l’occhiolino… O peggio, un’interpretazione “politica” della commedia fa di Petruccio un aguzzino maschilista che vessa Caterina, poveretta, fino a annullarne ogni volontà, e così lei dice quelle cose perché costretta o plagiata, ma in realtà non ci crede, l’abbiamo vista tutti all’inizio com’era spiritosa e intelligente…
Un apparente rompicapo, perché in quelle parole c’è prima di tutto una visione della vita del tutto condivisa all’epoca di Shakespeare. Poi si sorvola sulla cosa più importante, la circostanza teatrale di quelle parole che le rende bellissime e struggenti, uno dei passi più alti dell’intero canone: un uomo, nelle vesti di una donna, le recita in una commedia allestita ad uso di un ubriaco, che sappiamo vessato dalla moglie e che vediamo vittima incosciente di uno scherzo crudele, per il quale è trasformato da pover’uomo qual è in gran signore per una notte sola. Niente è reale. Una commedia di travestimenti è essa stessa un travestimento-beffa. E mentre quelle parole evocano un mondo di ricomposta armonia, esse denunciano insieme la loro inconsistenza, sono come perdute in un rimpianto, dicono di un mondo che non c’è più, un mondo che è possibile evocare solo nei sogni di un ubriaco.
("La bisbetica domata" di William Shakespeare,
spettacolo diretto da Cardone nel 2008)
Cosa passa nella testa delle donne mentre fanno l’amore? Stando a ciò che scrive Joyce nell’ultimo capitolo dell’Ulisse, milioni di pensieri compresi nell’arco di un amplesso. Ripercorre con la mente tutta la sua vita Molly Bloom, senza punteggiatura (non è prevista nel linguaggio associativo) e senza freni inibitori che la costringano a tenere qualche particolare per sé. Voglie insoddisfatte, tradimenti sospettati, subiti e anche inferti, fantasie erotiche poco ortodosse e giudizi taglienti sulle vite degli altri, borghesi intrappolati nelle convenzioni come lei. Immagini che emergono come isole fino ad un attimo prima nascoste dal mare, recuperate dall’infanzia, dalla prima giovinezza, dall’attimo appena passato a quello che sta per arrivare; si susseguono senza un apparente legame, fino al momento in cui affiorerà il ricordo del fatidico giorno, in cui proprio Lui riuscì a strapparle un “sì voglio. Sì”. (Paola Giglio)
("COMUNQUE NON E’ AMORE (SENNO’ NON MANGEREBBE)",
un monologo di Paola Giglio, dall'Ulisse di James Joyce,
musiche dal vivo di Luca Romano,
per la rassegna schizzi d’attore
Roma, 8 febbraio 2013)
“Una leggenda d’oro avevamo inventata,
ma poi, strada facendo, in male s’è cambiata.
E sgomenti vediamo a sipario caduto
che qualunque problema è rimasto insoluto.
Forse che la paura ha spento l’inventiva?
Si è già visto altre volte. Ma un’altra via d’uscita
neanche i vostri soldi han saputo ispirarla.
Deve cambiare l’uomo? O il mondo va rifatto?
Ci vogliono altri dei? O nessun dio affatto?
Siamo annientati, a terra, e non solo in commedia!
Non v’è modo di uscir dalla distretta
se non che voi pensiate fin da stasera stessa
come a un’anima buona si possa dare aiuto,
perché alla fine il giusto non sia sempre battuto.
Presto, pensate come ciò sia attuabile!
Una fine migliore ci vuole, è indispensabile!”
“L’anima buona del Sezuan” è la traccia su cui Salvatore Cardone conduce la summer class 2013 di Studio Orale. La storia immaginata da Brecht si interroga sulla possibilità di esercitare la bontà e la gentilezza in un mondo incattivito dalla paura, dalla povertà e dal bisogno. Musica, epica, narrazione, poesia e forme del dramma si intrecciano in soluzioni attualissime, che in un percorso di studio della recitazione vale la pena esplorare ancora.
("FORSE CHE LA PAURA HA SPENTO L’INVENTIVA?",
summer class su L’anima buona di Se Zuan di Brecht,
Roma, 17-22 luglio 2013)
Un ciclo di tre stage dedicati allo studio del personaggio riferito a tre autori esemplari nei quali coro, dialogo, monologo diventano strumento di comprensione e di ricerca. Ciascuno stage si artcola in due giornate e prevede sessioni di training e drammaturgia, compiti ed esercitazioni.
("IL CIMENTO E L’INVENZIONE
22 e 23 marzo, Checov
testo di riferimento: Tre sorelle
26 e 27 aprile, Beckett
testo di riferimento: Tutti quelli che cadono
31 maggio e 1. giugno, Eliot
testo di riferimento: Riunione di famiglia)
“Dille. Dille tutte. Il mondo ha bisogno di parole. Quanto di più potente e corruttibile al mondo, le parole. Per questo devi dirle fino in fondo e senza infingimenti. Dille forte. Perché tu hai bisogno del mondo. La forza della voce può dare al mondo un disegno. Quanto sarà plausibile, poi si vedrà. Intanto dille, dà corso a quest’azzardo. È tutta qui l’arte dell’attore: creare un provvisorio ordine di parole, inadeguato forse, ma che per un momento fa trapelare conoscenza e bellezza. Lo sapeva Amleto, che riusciva a vedere in questo mondo ‘fuor di sesto’.”
L’attività proposta fa conoscere da vicino il metodo elaborato da Cardone in oltre venti anni di attività pedagogica. Basato sui principi dell’oralità, esso libera la recita dalle secche dell’analisi testuale e dell’interpretazione, affermando la centralità della composizione estemporanea. Il metodo sostiene il primato della scuola italiana e accoglie una tradizione poetico-mimetica - Improvvisa e Antica italiana, Teatro della sorpresa e Macchina attoriale - da cui Cardone ricava possibilità inedite e attuali, senza vincoli di forma e di stile.
("IL MONDO, LE PAROLE",
summer class
sull’Amleto di Shakespeare
Roma, 16-22 luglio 2001)
“1936. Silvio D’Amico fonda l’Accademia. In quell’anno Eduardo ha 36 anni e raccoglie i successi del Teatro Umoristico. Vittorio Gassman ha 14 anni e entra al ginnasio. Carmelo Bene sta per nascere, o forse per morire, come lui stesso ci assicura.”
Una “storia abbreviata” del teatro italiano, sviluppata intorno al focus del sogno di D’Amico e condotta in forma di racconto orale da un protagonista della ricerca pedagogica, con le sue passioni, le sue scelte di campo, il suo impegno, le sue utopie.
("L'ACCADEMIA SBAGLIATA"
un racconto di Salvatore Cardone
per la rassegna schizzi d’attore,
Roma, 26 gennaio 2013)
"Oltre la superficie della pagina s'entrava in un mondo in cui la vita era più vita che di qua, da questa parte: come la superficie del mare che ci divide da quel mondo azzurro e verde, crepacci a perdita d'occhio, distese di fine sabbia ondulata, esseri mezzo animali e mezzo pianta."
“Essendo oggetto della letteratura la stessa condizione umana, chi la legge e la comprende non diventerà un esperto di analisi letteraria, ma un conoscitore dell’essere umano. Quale migliore introduzione alla comprensione dei comportamenti e dei sentimenti umani, se non immergersi nell’opera dei grandi scrittori che si dedicano a questo compito da millenni? […] Avere come maestri Shakespeare e Sofocle, Dostoevskij e Proust non sarebbe come approfittare di un insegnamento eccezionale? […] Bisogna includere le opere letterarie nel grande dialogo tra gli uomini, iniziato nella notte dei tempi, e a cui ciascuno di noi, per quanto insignificante sia, prende ancora parte.”
("L'ALBERO DI JO"
laboratorio permanente di lettura
di Studio Orale Arte dell'Attore
a cura di Shanna Rossi
Roma, 20 dicembre 2013-6 giugno 2014
serate speciali:
9 maggio, LA CITTÀ E LA CASA
23 maggio, LA GUERRA E IL RITORNO
6 giugno, IL SOGNO, IL LABIRINTO)
La parola. Il canto. Il racconto. A partire dal repertorio della poesia italiana dal secondo dopoguerra a oggi, Salvatore Cardone ripercorre la nostra storia più recente in una costante prospettiva, quella dei poeti, capaci, per natura e per mestiere, di vedere oltre il velo della cronaca, di guardare nel profondo alle ragioni della vita - nei suoi grandi movimenti, come in quelli di ogni giorno - di parlare a nome di tutti.
Il racconto si avvale di un piccolo organico: pianoforte, violoncello, voce recitante, cantante, narratore.
Un programma essenziale, per un’ora di spettacolo.
Un repertorio minimo di canzoni italiane eseguite in forma “colta”, a rievocare le atmosfere delle epoche narrate.
Un montaggio di poesie organizzate in blocchi tematici non cronologici, a comporre un racconto per suggestioni e immagini.
Il filo rosso di una narrazione, a secco ed in melologo, che dialoga con frammenti poetici e musicali, a dare il senso di come la storia si ammucchi insensata e rumorosa, e di come i poeti la sappiano, a volte, dipanare, facendo risuonare la voce, il silenzio, il pensiero.
("LA REPUBBLICA DEI POETI"
un racconto di Salvatore Cardone
voce recitante Shanna Rossi
canto Marina Bruno
violoncello Chiara Mallozzi
pianoforte Livio De Luca
narrazione Salvatore Cardone
per Compagnia della Musica
Roma, 23 ottobre 2013)
Schizzi di pioggia, schizzi di sugo, schizzi di fango.
D’inchiostro, di vernice, di colore. Schizzi d’autore.
Disegno provvisorio, tratteggio ideale per linee essenziali di un oggetto futuro.
Un bozzetto, un modello non compiuto, eseguito in scala ridotta.
Gli attori di Studio Orale, da anni impegnati in una ricerca sui processi di composizione estemporanea, nella rassegna “Schizzi d’attore” aprono le porte della loro officina. Attori per professione o per ricerca, presentano i loro ‘bozzetti’: progetti di messa in scena o di studio teatrale frutto di un confronto con testi e autori, forme drammatiche e retoriche, spazi non canonici di rappresentazione. In tale quadro di sperimentazione la recita resta dai margini indefiniti, lasciati ‘incompiuti’ per scelta, coscienti che in tale incompiutezza, nella flagranza della prima traccia, sia possibile scorgere l’essenza dell’atto creativo. (Shanna Rossi)
("SCHIZZI D’ATTORE"
Rassegna di Studio Orale
a cura di Shanna Rossi
per Colibrì Libreria Musica Arte
con Salvatore Cardone, Luca De Angelis, Paola Giglio,
Sabrie Kamiss, Luca Romano, Shanna Rossi
Roma, 26 gennaio-8 marzo 2013)
A un anno dalla fondazione Studio Orale presenta il suo lavoro: sessioni di training e lezioni aperte, confronti, discussioni e narrazioni, laboratori aperti e lavori in corso; le due “serate in recita” si svolgono, secondo i procedimenti dello Studio, in rigorosa composizione estemporanea; il programma serale viene annunciato a conclusione del laboratorio aperto del pomeriggio.
("STUDIO ORALE ESPOSIZIONE"
Roma, 6-7 ottobre 2012
ore 10-13
sessioni di training e lezioni dimostrative
6 ottobre, FLUSSO
7 ottobre, COMPOSIZIONE
ore 14-17
LABORATORIO APERTO
sui materiali in lavorazione per la presentazione serale
ore 18-20
confronti, discussioni e narrazioni
6 ottobre, RECITAZIONE, AUTOBIOGRAFIA E METODO
7 ottobre, I PRINCIPI DELL’ORALITÀ
ore 21-24
LAVORI IN CORSO
serate in recita con Marzia D’Angeli, Luca De Angelis,
Paola Giglio, Enrico Piergiacomi, Shanna Rossi, Giorgio Squilloni
coordina Salvatore Cardone)
“I ragazzini che esploravano il ruscello
E trovarono un’isola deserta, con una
Insenatura di sabbia (luogo segreto, ma anche
Assai pericoloso, poiché qui il bufalo d’acqua
Può giungere errando, ed il kinkajou e il mangabey abbondano
Nel tenebroso intrico di una boscaglia di manghi,
E da un albero all’altro lèmuri oscuri scivolano –
Guardiani di un luogo dove un tesoro da tempo era stato nascosto)
Raccontano a merenda le loro avventure,
E quando la lampada è accesa e la tenda tirata
Chiedono un po’ di poesia per favore. Di chi sarà,
Se non è ancora il momento di andare a dormire? …”
Il “lettore che dice” è condizione indispensabile perché si compiano i piani del poeta. La poesia è cartina al tornasole per svelare e ritrovare le attitudini all’oralità come dimensione profonda comune ad ogni uomo. Lo stage esplora le relazioni tra l’arte della recita e il testo poetico, è rivolto a tutti e si articola in due giornate intensive fatte di training, letture, compiti ed esercitazioni.
("UN PO’ DI POESIA, PER FAVORE"
recita e poesia
attività ricorrente dal giugno 2013)
La vita di Joyce Lussu è finita prima del duemila.
Quando le chiedevano che mestiere o professione facesse Joyce si imbarazzava, le veniva da dire: “Storia. Faccio storia.”
Qualcuno ha detto - e a ragione - che Joyce Lussu è stata il Novecento. Una miriade di fatti, persone e luoghi che hanno segnato il nostro recente passato.
Qualcun altro, invece, attraverso il suo ‘autoritratto’, potrebbe forse avere l’impressione che si tratti di una storia del duemila. Un duemila come lo vorremmo, come avremmo voluto che cominciasse, come vorremmo che continuasse. (Shanna Rossi)
("UN RITRATTO DEL DUEMILA"
una composizione estemporanea di Shanna Rossi
da Portrait di Joyce Lussu
musiche dal vivo di Luca Romano,
per la rassegna schizzi d’attore,
Roma, 22 febbraio 2013)
Nell'universo di Dino Buzzati la donna è centrale. Pochi autori hanno amato, conosciuto e saputo interpretare il mondo femminile quanto lui. Ne “I suggeritori”, curiosamente rappresentato la prima volta proprio un 8 di marzo, nel 1960, si trova tutta la paura e l'amore con cui gli autori hanno, con miriadi di eccezioni ovviamente, descritto la donna nel corso dei secoli. Le donne di cui leggevo avevano molto in comune: erano in linea di massima fragili e spietate, e quando avevano un compagno, non era alla loro altezza. Al di là di tutte le differenze storiche e stilistiche, gli autori maschili credo descrivano soprattutto il senso di inadeguatezza che proviamo noi uomini nei confronti delle donne che amiamo. Mi serviva un po' di respiro, e un punto di vista diverso, e mi sono subito ricordato che gli unici personaggi femminili di cui avessi letto e che mi pareva avessero davvero bisogno di un uomo, erano quelli descritti da una donna, Natalia Ginsburg nello specifico. Il breve “Il cormorano”, che conclude la nostra serata senza poter spiccare il volo, è probabilmente l'ultimo scritto d'invenzione della grandissima autrice. Con l'aiuto poi della musica di Luigi Tenco, compositore molto spesso attorno al rapporto dell'uomo con la donna e all'inadeguatezza dell'uomo, le parole di Edoardo Sanguineti e Joyce Lussu, la sensibilità unica e universale del duo Mogol-Battisti e l'estro senza tempo di Ovidio e Giorgio Gaber, speriamo che questo spettacolo possa compensarvi di esser giunti fin qui tra noi! (Luca De Angelis)
("UOMINI CHE AMANO LE DONNE
una serata diretta e intepretata da Luca De Angelis
con Paola Giglio, Sabrie Kamiss e Shanna Rossi
musiche dal vivo di Luca Romano,
per la rassegnaschizzi d’attore,
Roma, 8 marzo 2013)
A distanza di tempo il teatro di Eduardo De Filippo si stacca sempre più dalla cronaca, dalla sociologia, dall’impegno civile, dall’istanza morale, dal coraggio del pathos, pur così importanti per penetrarne il senso.
A distanza di tempo il teatro di Eduardo resta limpido e intatto nella sua forza esemplare, lasciandosi dietro le limitazioni critiche che ne accompagnarono la fioritura: naturalismo, pochade, pirandellismo, farsa dialettale...
A distanza di tempo il teatro di Eduardo acquista sempre più efficacia inedita e sorprendente. C’è qualcosa di profondamente pedagogico, di profondamente necessario in esso. C’è forse il segreto di come funziona il teatro tutto – al di là degli stili, delle epoche e dei modelli – in quanto distillato di una sapienza trasmessa per secoli solo nella pratica.
La scelta di Eduardo De Filippo per un laboratorio di recitazione aperto a tutti, attori e principianti, segnala la nostra volontà di tornare agli alfabeti essenziali della recita.
La scelta di Filumena riguarda, invece, un tema che giudichiamo centrale e che ci parla di oggi: la condizione di “esilio” nel proprio tempo, nella propria vita: la legge degli uomini non consente a Filumena di esercitare il suo diritto naturale di essere felice fino in fondo; a tutto ciò Filumena si ribella con forza, consapevole di essere profondamente estranea al mondo che quella legge rappresenta ("Ccà sta 'a ggente: 'o munno. '0 munno cu' tutt' 'e llegge e cu' tutt' 'e diritte... '0 munno ca se difende c' 'a carta e c' 'a penna. [...] E ccà ce sto io: Filumena Marturano, chella ca 'a leggia soia è ca nun sape chiàgnere...", Atto II).
(“FILUMENA, LA STRANIERA”, summer class su Filumena
Marturano di Eduardo De Filippo, Roma, 19-28 settembre
2014)
cattive intenzioni
Questo spazio vuole illustrare il lavoro e i progetti di gruppi di teatro autogestito. Molti artisti al debutto si sono mossi, si stanno muovendo in questa direzione, e fanno bene. È la strada più semplice, più solida e sicura. Da lì vengono le cose più belle.
Si darà spazio qui a dichiarazioni di poetica, desideri esagerati, cattive intenzioni e la parola sarà di chi la chiede. Per la pubblicazione utilizzare il collegamento scrivi.
modelli pedagogici
pedagogia del testo
educazione alla teatralità
teatro laboratorio
azione poetica
"Qualche domanda. Perché quando guardiamo un danzatore o un
cantante, anche di livello non più che onesto, comunque proviamo un
piacere che con la recitazione conosciamo invece solo a livelli altissimi, se
no è la noia e il fastidio? Lì c'è la musica si dirà. Benissimo. Vuol dire che
per la recitazione quella "musica" l'abbiamo perduta? “musica”, cioè quella
capacità di respirare insieme? e se è così, sarà mai possibile ritrovarla? o
quello dell’attore è un mestiere perduto?
La recitazione è prima di tutto conoscenza e la drammaturgia forma
del pensiero: forme peculiari di conoscenza e di pensiero, le più antiche
conosciute dall’uomo, forme dell’oralità. È con esse che l'attore e l'autore
devono cimentarsi: creare un sistema di oralità che lo spettatore sappia
riconoscere e respirare. Perché il teatro è questo, creazione diretta, e non
traduzione scenica del “testo letterario”.
Definisco talvolta il mio metodo "poetico-mimetico": è la definizione
canonica della poesia antica, che era "recita" e non letteratura. È un
metodo basato su procedimenti essenziali, di immediata esecuzione. Essi
riconducono l'atto recitativo alla sua più antica natura. Con essi so di poter
dare, di aver dato, in questi anni di ricerca, qualche risposta."
"Molte sono le "intelligenze" del mondo e di se stessi: l'intelligenza spaziale e
quella corporea, l'intelligenza compositiva e quella relazionale,
l'intelligenza visiva o ordinatrice o musicale o logico-matematica, linguistica
o personale... Ognuno di noi, per il suo lavoro, per la sua storia, tende a
privilegiarne una sola e ne fa la sua chiave del mondo. Ma può sorprendersi a
scoprire altre strade e magari a crearne. L'atto teatrale può favorire questa
scoperta perché tende ad usarle tutte. Ma anche a "metterle in crisi"
attraverso procedimenti di contaminazione e di programmatica "confusione".
L'educazione alla teatralità è, insieme, introduzione a un arte ed esperienza
di questa forma di conoscenza, di comunicazione, di pensiero. Essa può aprire
nuovi varchi al processo di crescita personale che ci accompagna per tutta la
vita. Per la natura di conoscenza dell'atto teatrale. Per la sua funzione
antica di "messa in contatto" dell'uomo con le sue domande. Per la sua capacità
di far convivere accordo e disaccordo, testimonianza e condivisione."
"Il lavoro teatrale cammina su due gambe: la composizione scenica, la comunicazione
spaziale, la dimensione materiale della performance, da un lato; il
processo recitativo dall'altro. Il novecento ha conosciuto, per questo,
separazioni di ruoli e competenze. Ma se il teatro ha luogo a partire da un
patto alla pari tra adulti consapevoli in grado di parlare lo stesso
linguaggio, e se è accettabile, inevitabile, una separazione di ruoli - attore,
regista, drammaturgo, pedagogo, spettatore - ha senso far corrispondere a
questi ruoli competenze distinte o tecniche separate? Il teatro laboratorio
mescola le carte esaltando quel patto. Tutti partecipano della creazione
scenica in modo compiuto. I ruoli distinti sono definiti non da steccati che è
vietato oltrepassare, ma da punti di vista molteplici per guardare lo stesso
oggetto, lo stesso gioco. Tutto questo ha ancora più senso in sede pedagogica:
l'allievo è chiamato da subito a un atto responsabile, autonomo, di creazione."
"Ogni attore ha bisogno di trovare la sua personale capacità di azione poetica. Non esistono metodi, non esistono formule, non esistono modelli, non esistono codici. Non esistono più. È impossibile oggi non parlare di teatro al plurale, di recitazione al plurale. Venuti meno gli equivoci della recitazione accademica e della regia critica, tardive permanenze di antiquate riforme ottocentesche, o di una formazione che accumula e separa le tecniche, da mettere poi insieme chissà come, come se l'attore fosse una scatola di montaggio, oggi si tratta solo di essere vivi in scena, ciascuno a suo modo. Nella assoluta libertà di scegliere i propri percorsi. Nella coscienza che ogni attore è maestro di se stesso. Nella capacità autonoma di progettare la propria opera e la propria azione."
attività ricorrenti
il limite e l'errore
a solo, a due, assieme
teatro di poesia
un cavallo senza ruote
il vuoto tra le cose
L’attore è solo. Veicolo di una conoscenza condivisa, l’attore è solo. Non parlo di una solitudine come circostanza patetica, ma come condizione positiva di una creatività felice. L’attore è solo con le sue parole. Non ha che quelle e vanno dette. È solo, per l’ampio mare, con la sua zattera e la sua vela. Raccogliere e governare le turbolenze del suo processo, modellando spazio e tempo nel movimento del suo corpo: venti e correnti e maree, che nascono da se stesso. Vanno suscitati, prima di tutto. E vanno suscitati in sé, venti e maree, perché indugino intorno a sé, per essere raccolti, e governati, prima che si dissolvano. Sciogliere e coagulare. Sciogliere per coagulare, in un processo binario, ininterrotto. Il dramma, le prove - la preparazione - servono solo a stabilire come suscitarli prima e governarli poi. Cosa accadrà dopo, a prove concluse, non è dato di sapere, se non quando accadrà. Cerca la rotta mentre la trova, e trova quella giusta, questo fa l’attore. Il dramma e le prove servono solo a predisporre questo azzardo. La presenza di un regista complica solo le cose, meglio farne a meno, se possibile. Egli tende a scodellare una minestra che ha preparato già per conto suo, e all’attore non resta che servirla riscaldata. Replica dopo replica, sarà sempre più fredda. Non puoi riscaldarla ancora e ancora, diventerebbe immangiabile. Molto meglio una pietanza ogni volta nuova. Del resto le parole, le cose che ha immaginato, l’autore le ha immaginate per lui, non per un regista.
Un uso improprio del termine intende “dialogo” qualunque scena a due. Ma non sempre nel dramma si manifesta la parola ragionante propria di un pensiero dialettico che trova la sua esaltazione nella forma dialogo. Nella parola “conflitto” - altra termine dubbio ed equivoco - si individua comunemente il motore di ogni azione. Ma l’interlocutore è sempre fonte “positiva” dell’azione, che in teatro è azione “in risposta”. Se si considera la scena “a due” come circostaza più ampia, che non necessariamente si sviluppa come “dialogo”, il principio unificante è, più che di conflitto, quello di armonia, che non privilegia l’azione verbale a scapito delle altre. L’azione verbale del singolo è monca senza la materia che mette in gioco l’interlocutore: le componenti dell’azione verbale dell’uno sono sempre anche la simultanea azione fisica e psicologica dell’altro, e viceversa. Recitare “in risposta” è dunque condizione di tutte le forme drammatiche, non solo del dialogo. Per questo lo studio del dialogo è il modo migliore per capire come si recita, ad esempio, il monologo. E viceversa. Questa capacità di recitare “in risposta” viene allenata in modo basilare ed immediato nell’esperienza del coro. La coralità è un principio che non rimanda solamente a una forma desueta del dramma, intesa come sospensione dell’azione che dà spazio al commento o all’intermezzo. È principio essenziale dell’azione, non ne è la sospensione. La coralità è un’attitudine a stare nel dramma sempre, quale che sia la forma con cui esso si manifesta, che sia il monologo, il dialogo, il coro.
La recitazione in versi non esiste. Una corriva formulazione chiama così lo studio del testo poetico fatto dagli attori, come se ci fosse una recitazione non in versi, contrapponendo qualcosa di vecchio a qualcosa di nuovo, qualcosa di superato a qualcosa di attuale. È un’insensatezza analoga ad altre formulazioni come recitazione “cinematografica” o “televisiva”, “comica” o “drammatica”, tutte prive di fondamento.
Orientarsi nella composizione in versi è per un attore, per un allievo, cosa essenziale. Ma questo vale in assoluto. Si tratta prima di tutto di indicare un sistema di procedimenti e una forma di recita, come la via maestra per arrivare a un efficace esercizio dell’oralità. E si tratta poi di guardare al verso come al microcosmo paradigmatico della recitazione tutta, con strategie che agiscono allo stesso modo in ogni autore, quali che siano le forme - versi, prosa - che egli usa. In vista di un teatro che sappia rompere i limiti e le ristrettezze del realismo borghese, si accende a partire da Eliot il dibattito sulla necessità o opportunità di produrre drammi in versi. E anche senza versi il Novecento sa immaginare e creare molte forme di un “teatro di poesia”, un teatro che parla per sostituzione e non per dialettica, per evidenza e non per descrizione, per cui non solo la psicologia o il gesto o il conflitto o l’ostacolo fanno il dramma, ma anche l’epifania orale della verità e dell’azione.
Qualcuno ha detto: "Parlare di letteratura orale è come pensare al cavallo come a un'automobile senza ruote". Allo stesso modo, studiare un dramma, in vista di una recita, utilizzando gli strumenti della critica testuale, è come mettere le ruote a quel cavallo, per poi poterle togliere.
La drammaturgia è prima di tutto arte dell’oralità. Quella doppia accezione, scritta e orale, che poesia e narrazione acquisitano nel tempo, non ha mai riguardato il teatro. L’autore drammatico non crea a vantaggio di qualcuno che legge: disegna uno spazio in cui agire mentre qualcuno guarda. La scrittura per il teatro è solo un supporto, spesso inadeguato, di un disegno e di un progetto per qualcosa che deve effettivamente accadere. È fase provvisoria, incompiuta e strumentale di un processo che resta orale per natura e per programma. Stabilire questo, in sede pedagogica, libera da subito l’allievo, l’attore, dall’idea preconfezionata della recita come esecuzione del testo scritto, e della memoria come un meccanismo pedissequo che mette in fila gesti e parole in un ordine prestabilito. Ma la memoria è un processo, è essa stessa oralità, e ha bisogno di tre condizioni essenziali: attivazione creativa, composizione estemporanea, comunicazione testimoniale. In questo quadro il concetto di testo rivela tutta la sua mobilità e problematicità.
Liberare il personaggio dalla psicologia è un passaggio essenziale. Si tratta di un principio facilmente riconoscibile soprattutto nel grande realismo che - come concetto esteso - attraversa all’incirca due secoli, diciamo da Goldoni a Beckett. Ma nel senso più ristretto di identità psicologica, i termini si riducono di molto: non più di cinquant’anni a cavallo del secolo scorso. Senonché proprio in quei cinquant’anni gli autori più importanti sono autori di confine e di cerniera, sono autori che accolgono naturalismo e simbolismo insieme, o preannunciano espressionismo e metafisica. In essi il concetto di personaggio diventa molto oscillante e sfumato. Il gesto è spesso esemplare, metaforico, fortemente connotato. L’azione trascende la “biografia” e rimanda una struttura comune, sociale, morale, filosofica. In scena non solo le cose, ma il vuoto tra le cose a suggerirne il segreto. Il concetto di personaggio è già in quegli autori insieme molto evidente e molto aperto. L’impianto psicologico sarà in quesi casi fonte di una chiusura di prospettive. A maggior ragione lo sarà quando il personaggio, come nel grande repertorio, è inteso come ruolo, come funzione, come parte, come metafora, come creazione poetica. E allora lo studio del personaggio in senso tradizionale sarà solo un modo possibile, da utilizzare se virtuoso e non occlusivo.
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